Si lo so, oggi non è Domenica, ma questo pezzo ho iniziato a scriverlo domenica mattina e ho voluto dedicarci del tempo, parecchio tempo, senza farmi fretta perchè, oltre che essere un’attività piacevole, per me scrivere questo blog è come la barca di Caronte che traghetta le anime fuori dal limbo. Nel mio caso mi deve aiutare ad uscire da questa situazione “di mezzo” e quindi devo scrivere anche se non pubblico subito.
Qui non parlarerò di un colore solo. Scriverò invece di colori diversi, perché voglio ricordare le domeniche del mio passato più lontano, che per assurdo sono quelle che ricordo meglio e quelle che hanno lasciato un segno nella mia storia. Il protagonista indiscusso dei miei ricordi è nonno Carlo,lui ha avuto un grosso peso nella mia vita, non tanto in quella che ho vissuto quando lui c’era, piuttosto quella che ho affrontato senza di lui. La Domenica è sempre stata per me il giorno che scandisce le stagioni, riconosco i cambi di clima grazie alle domeniche. Capisco se è arrivato il primo gelo dell’inverno o la brezza dell’ estate solo se è domenica..
ESTATE
Quando ero piccola capivo che era arrivata l’estate perché mia mamma iniziava a lasciare la saracinesca del garage aperta (in dialetto si dice: la clèr del garage) e nessuno entrava più della porta d’ingresso. Credo che lo facesse per far girare l’aria in casa dopo tutta la fumera che si era creata durante il giorno ma in realtà non lo so, non l’ho mai capito. Mi ricordo il colore della luce fioca del cortile che si doveva accendere quando faceva buio, era una di quelle luci che anche se l’accendi non è che cambia molto. La corte invece è una di quelle vecchie corti con le cascine, il fieno, le scale di legno e tutto il resto. Tra una cascina e l’altra c’è la nostra casa, la casa della mia famiglia che mio nonno ha costruito intorno al 1975 credo, e nella quale ho abitato per venticinqueannicirca,per poi tornarci due settimane fa, sempre di Domenica. Comunque, le domeniche sera nei miei ricordi sono color bianco luce della televisione accesa nella cucina di mio nonno e tutto intorno il buio per non far entrare le zanzare… io andavo a trovarlo dopo cena e guardavamo Giochi Senza Frontiere. Tutto era concentrato su quella luce che batteva sul tavolo bianco ormai rovinato dagli anni. Bianco luce, il colore della serenità, delle anime buone, e dei ricordi che fanno male perchè sono quelli che non tornano. E le persone che ci sono dentro non tornano. Ma la Domenica nei miei ricordi è anche gialla: il giallo della polenta che mio nonno girava per ore sul fuoco, nel pentolone gigante color bronzo. Io e mia cugina e i miei fratelli andavamo dal nonno a prendere la crosta bruciacchiata che si formava sul bordo quando la polenta era quasi pronta. Che buona…se chiudo gli occhi riesco ancora ricordami l’odore, il sapore e il rumore croccante di quando la mangiavo. Poi, quando la polenta era pronta e il nonno la buttava sul piattone di legno regolandone la discesa con grosso coltello, di legno anch’ esso, per non farla cascare dai bordi. Poi attraversava il cortile per arrivare a casa nostra ed in mano aveva sempre la sua solita bottiglia di vino. Il rosso scuro del vino della bottiglia di mio nonno. Erano le domeniche con mio nonno, o almeno io così me lo ricordo, ma si sa che a volte i ricordi fanno brutti scherzi e cambiano a seconda di ciò che si vuole ricordare.
AUTUNNO
Nelle domeniche d’ autunno mio nonno partiva con il motorino, il Ciao, per andare a messa,cantava nel coro della chiesa ed era sempre vestito bene. Il marrone dei pantaloni di mio nonno, quelli di tessuto pesante che si mettevano i signori negli anni ’80 me li ricordo benissimo, credo ne avesse più di un paio fatti in quel modo.. Il marrone non era di quelli scuri, direi più sul marrone quasi ocra ed il maglione pesante sopra. Il marrone scuro scuro dei suoi capelli. Li tirava tutti indietro con la gelatina e per questo sembravano neri, ma non lo erano, erano marroni. Ricordo che le domeniche in cui iniziava a fare un po’ di freddo arrivavano i parenti alla lontana, tipo la sorella della nonna con i figli e i mariti che, insieme a mio nonno, bevevano spesso un bicchiere di troppo e si mettevano a cantare. Cantavano le canzoni di paese per tutto il pomeriggio e a me piaceva un sacco. Poi arrivavano le domeniche d’autunno più tristi e le passavo a guardare la pioggia davanti al garage semi aperto, apertura che mia mamma regolava inclinando il manico di una scopa infilata nella fessura di scorrimento della clèr. Quella pioggia era verde chiaro, era fresca da morire ed arrivava fino alle orecchie. Mi mettevo spesso una coperta e Vale, mia sorella, ogni tanto mi faceva compagnia. Ma nonno Carletto non c’era già più e non era proprio il periodo delle canzoni. Se solo adesso nonno Carlo vedesse cosa è diventato mio fratello Carlo, il più piccolo, che da lui ha ovviamente preso il nome, sarebbe orgoglioso. Carlo canta e suona la chitarra e inventa canzoni, sicuramente meglio di come faceva lui, e gli sarebbe andato dietro di sicuro.
INVERNO
In inverno ricordo chiaramente che c’è stato un anno in cui ero io a cantare nel coro della chiesa, ero piccola, veramente piccola, ma mi facevo un sacco di strada a piedi al freddo per ritornare a casa dopo la messa. Avevo una pelliccia da bambina color bianco candido, mi ricordo che era morbidissima ed ero completamente soddisfatta e felice che i miei genitori me l’avevano comprata. Non ricordo se era già l’anno senza il nonno o l’ultimo con lui ma ricordo che in quel periodo mi sentivo sola. Tutta quella strada a piedi ogni domenica, lungo la statale, con la neve, era tutto un po’ grigio, grigio topo direi. Una volta ricordo chiaramente che non stavo bene,però sono andata lo stesso perchè volevo cantare, ma durante la messa mi sentivo sempre peggio e volevo solo che mia mamma fosse fuori dalla chiesa ad aspettarmi, che fosse venuta a prendermi. E invece me la sono dovuta fare a piedi… mi sentivo bollire,avevo ovviamente la febbre e una sensazione arancione, decisamente arancione fuoco. Credo di aver poi avuto una bella influenza in effetti. Le domeniche d’inverno quando nevicava io Vale e Giuppe andavamo fuori a giocare con la neve. Vale e Giuppe hanno solo quattro anni di differenza e io sono nel mezzo, quindi praticamente siamo cresciuti attaccati, ognuno completamente diverso dall’altro, ma attaccati. Mi ricordo i pupazzi di neve con la carota e i guanti neri e pelosi che la mamma ci dava per giocare e non avere freddo, ma servivano a poco perchè dopo qualche minuto a me gelavano le mani come se non li avessi. Decisamente rosa questo ricordo, rosa di felicità per il tempo da bambina che ho passato con loro, rosa come le orecchie dei conigli che i miei nonni avevano nella stalla. Nostro papà ci portava sulla neve ogni tanto, sulla montagna più vicina a casa. Non andavamo dove c’erano gli impianti perchè era troppo impegnativo ma, anche se non potevamo permetterci di andare a sciare, almeno la neve, uno slittino e un sacco dell’immondizia non ce li negava nessuno. Per questo amo così tanto la neve credo, perchè quando eravamo piccole io e Valentina sognavamo che nevicasse sempre, l’aspettavamo, la desideravamo..sopratutto lei, ma questa è un’altra storia che racconterò più avanti. Purtroppo non ci sono foto di noi sulla neve. Mai io mi ricordo bene lo stesso. Io, Vale e Giuppe.
PRIMAVERA
Poi ci sono le domeniche mattine di primavera e la prima cosa che mi viene in mente sono i mille colori dei fiori del mio giardino. Mio padre ha iniziato ad avere la fissa per il giardino qualche anno fa, a dir la verità oramai molti anni fa. Ha ereditato l’orto di mio nonno e lo ha coltivato con tanto amore e le prime domeniche di primavera, con le belle giornate andava a comprare i semi dei fiori e delle verdure che voleva piantare e ci portava con lui nelle serre per esplorare nuovi fiori e litigare con il commerciante per uno sconto sul prezzo finale di ciò che compravamo. Ovviamente poi chi decideva dove mettere i fiori era sempre mia mamma ed ancora oggi è così. Se penso a mia mamma, penso al cespuglio di rose rosa che sono lì in giardino da sempre, e che sono le sue. La mia mamma è proprio di quel colore, rosa delle rose rosa candido. Amo la mia mamma. Circa vent’anni fa mio padre ha piantato un ciliegio, me lo ricordo bene, era alto poco più di me e il tronco era piccolissimo, a guardarlo adesso è incredibile come sia diventato. Le piante di ciliegio sono quelle che preferisco, il colore del legno è un bel marrone fresco ma robusto, nè troppo scuro né troppo chiaro, le foglie sono verde brillante, le ciliegie quasi nere quando sono mature ed i fiori…I fiori di ciliegio non hanno un colore comune, per me è rosacolorfiordiciliegio e basta. E’ l’albero di ciliegio più bello del mondo, è cresciuto con me ed è il mio albero. L’ultima volta che ho visto mio nonno in vita lo ricordo come se fosse qui adesso. Io stavo giocando in giardino con qualcuno, non ricordo, forse i miei fratelli, forse qualche vicino. L’ho visto entrare da solo dal cancello e venire piano con il bastone verso di me. Era la primavera del 1993 ed io avevo nove anni. Era tanto tempo che non lo vedevo perchè lui non voleva farsi vedere e quando è arrivato da me ha alzato il bastone indicando il ciliegio, poi ha semplicemente messo la sua mano libera sulla mia spalla e mi ha fatto segno di portarlo a vedere l’orto, una volta li si è guardato in giro, poi siamo tornati indietro ma ormai il mio ricordo è sfocato e io non mi ricordo più se mi ha detto qualcosa. Vorrei tanto ricordare ma proprio non ci riesco. Mi ricordo solo la sua mano sulla mia spalla. Credo che voleva solo salutare il suo orto e il giardino per l’ ultima volta e io sono felice di averlo aiutato. Rosacolorfioridiciliegio è il colore dei ricordi.
Buonanotte